Fonte: http://www.centrostudilarcoelaclava.it/sito/?p=1168
Il Centro Studi L’Arco e La Clava ha avuto il piacere di intervistare Daniele Scalea, autore del libro La sfida totale, scritto di notevole fattura e di estremo interesse che consigliamo di leggere il prima possibile. Cogliamo l’occasione per ringraziare Daniele della sua disponibilità e gentilezza nel rispondere alle nostre domande e per il tempo dedicatoci.
E’ sempre un piacere leggere trattati di geopolitica scritti da italiani. Come mai la disciplina della geopolitica, con i suoi studi accorti che legano indissolubilmente aspetti culturali, economici, politici e geografici ha avuto così poco successo in Italia?
La ringrazio di considerare il mio libro un “trattato di geopolitica”: io più modestamente lo definirei una riflessione sul panorama politico internazionale odierno. Al suo stesso termine ha però ricorso anche il generale Mini, e ciò deriva forse proprio da quella carenza di testi del genere scritti da nostri connazionali, come lei ha rilevato.
Tuttavia, la disciplina geopolitica non è oggi molto più negletta in Italia di quanto lo sia nella maggior parte degli altri paesi. La geopolitica, dalla Seconda Guerra Mondiale in poi, ha goduto di cattiva fama, perché considerata a torto una parte integrante dell’ideologia nazista. Inoltre, non ha aiutato il fatto che ponesse al centro della propria analisi la geografia, quando le due ideologie imperanti del dopoguerra – liberalismo e marxismo-leninismo – erano decisamente economiciste. Molti di questi pregiudizi sono stati abbattuti dall’inizio degli anni ’90. La fine dello scontro bipolare, il cui carattere principale era apparentemente ideologico-economico, ha riportato in auge vecchie chiavi interpretative della politica internazionale. Certo permangono le critiche, secondo cui la geopolitica sarebbe pseudo-scientifica o determinista, ma non sono più invalidanti come un tempo.
Il successo o insuccesso della geopolitica si può osservare attraverso un triplice prisma. Innanzi tutto, va considerata l’opinione pubblica. Pur tenendo presente che in Italia c’è scarso interesse per informazione e cultura, e men che meno per la politica internazionale, l’attività di riviste come “Limes” o “Eurasia” ha certamente diffuso la conoscienza e l’interesse per la geopolitica nel pubblico colto italiano. A livello pubblicistico – rapportandosi allo stato complessivo dell’editoria e del giornalismo italiani – credo che la geopolitica italiana sia in uno stato di salute accettabile.
A livello accademico, la geopolitica sconta ovunque il fatto di avere spesso privilegiato la pratica alla teoria, l’applicazione alla speculazione, tanto che ancora oggi manca d’una definizione univoca ed universalmente accettata. Malgrado ciò, nei paesi anglosassoni e in Francia è riuscita a farsi spazio anche nelle università. Le università italiane sono note per il loro conservatorismo, e ciò non facilita l’accettazione della geopolitica come approccio analitico ed interpretativo utile alle scienze storiche e politiche. Esistono alcuni insegnamenti di geopolitica, ma in genere trattano molto più di politica che di geografia. La geopolitica discende anche dalla geografia, e tale progenitrice è tra le materie più bistrattate in Italia: quasi non ve ne si trova più traccia nei curricula scolastici del nostro paese, e quel poco che resta è spesso all’insegna del vetusto elenco di nomi da mandare a memoria
Il terzo ed ultimo ambito in cui si può osservare la geopolitica è quello dell’azione statale. La geopolitica è anche strategia («coscienza geografica dello Stato» se si vuol accettare la controversa definizione di Karl Haushofer). È in questo campo che l’Italia paga lo scotto maggiore. Fin dal Risorgimento i dirigenti del nostro paese hanno creduto che l’idealismo e la volontà fossero più importanti dei nudi fatti – quali ad esempio i dati di fatto geografici. Si può poi aggiungere che, come scrisse Ernesto Massi, «la geopolitica è prassi prima di essere dottrina, e per questo i paesi che la praticano impediscono agli altri di studiarla». Lo stato di soggezione politico-culturale dell’Italia, dunque, non aiuta.
Nel suo libro parla in termini classici dello scontro tra Terra e Mare. Ci può spiegare questo concetto e questo contrasto tra i due diversi modi di concepire il mondo politico, economico e culturale?
Fino all’invenzione e diffusione dell’aereo, la potenza era di due tipi: terrestre e marittima. Non si è ancora scritta la parola fine sul dibattito circa la potenza aerea: ossia se faccia parte a sé, o piuttosto costituisca un’estensione delle altre due. Ad ogni modo, i due tipi classici di potenza si definiscono in base al “supporto geografico” in cui operano: la terra o il mare. La conformazione geografica del globo si trova dunque ad avere una posizione di primo piano nell’analisi strategica e geopolitica.
Alcuni pensatori hanno esteso la dicotomia terra-mare anche all’etnografia e antropologia, ipotizzando che tale tratto geografico influisca sul carattere dei popoli. Halford Mackinder toccò marginalmente il tema, che fu approfondito da Carl Schmitt; oggi è centrale nella speculazione di Aleksandr Dugin. Grosso modo, si tende a ritenere che i popoli “tellurici” siano più collettivisti e tradizionalisti; i popoli marinari maggiormente individualisti e dinamici.
La Cina ha una storia tutta particolare che troppe volte è stata ignorata dall’Occidente. Anzi molte volte è proprio la libera informazione occidentale che contribuisce a formare un immaginario collettivo distorto della moderna realtà cinese. Come si sente di descrivere in breve la storia della Cina moderna? Quali sono i vantaggi e gli svantaggi della sua ascesa per gli stati europei?
In effetti, la storia della Cina è pressoché ignota agli “occidentali” – intesi come popoli europei o d’origine europea – perché l’insegnamento storico in questi paesi continua ad essere fortemente etnocentrico. Eppure, una conoscenza almeno sommaria della storia e della cultura cinesi permetterebbe di guardare nella giusta ottica all’attualità di quel paese.
Prendiamo in considerazione la questione del Cristianesimo in Cina. È facile scandalizzarsi per la sospettosità con cui le autorità di Pechino guardano ai cristiani nel loro paese, ma diventa assai più comprensibile se si tengono in conto i circa 20 milioni di vittime con cui, appena un secolo e mezzo fa, il paese pagò la rivolta cristiana dei Taiping. Questo è un esempio di come l’ignoranza storica dia una percezione distorta degli eventi attuali.
Nemmeno l’ascesa della Cina è un fatto storico così “sconvolgente”: di sicuro lo è meno della sua recente decadenza, dal momento che la Cina è sempre stata la maggiore potenza del globo, se si eccettua la parentesi moderna. La storia moderna della Cina, dunque, in estrema sintesi consiste in ciò: il ritorno al posto che le compete nella gerarchia internazionale, sfruttando alcuni elementi tecnici, organizzativi e culturali tratti dall’Occidente.
La fase di decadenza della Cina è coincisa con quella di massimo splendore – o almeno di massima forza – della civiltà europea. La resurrezione cinese comincia con la decadenza dell’Europa. Anche se le due tendenze sono solo marginalmente collegate, la coincidenza ci fa vivere con una certa inquietudine l’ascesa cinese. Inoltre, la gerarchia internazionale è un gioco a somma zero: se qualcuno sale qualcun altro scende. In ogni caso è inutile stracciarsi le vesti, o tapparsi occhi ed orecchi per non vedere la realtà. L’ascesa della Cina è un fatto, e bisogna tenerne conto cercando di volgerla a proprio favore. Oggi si preferisce quasi sempre guardare il lato negativo, ma può essere un errore. Ad esempio: le merci cinesi altamente competitive hanno estromesso dal mercato taluni settori produttivi italiani. È pure vero che questi prodotti a basso costo stanno sorreggendo lo stile di vita d’una popolazione che va impoverendosi, e più per colpa nostra che per “merito” cinese.
Rimaniamo ancora in Oriente. La Cina non è la sola potenza in ascesa; vi è anche la nuova potenza indiana e una nuova Russia che sembra essersi ripresa dopo la caduta del muro di Berlino. In particolare riguardo a Cina ed India lei ha dedicato un intero capitolo. Quale sarà il destino di queste due potenze? Che legame si stà formando tra il dragone cinese e il sub-continente indiano? Appare infatti evidente che gli Stati Uniti d’America vorrebbero ridimensionare la potenza cinese con l’aiuto di Tokio e New Delhi. India e Giappone sono disposte ad affiancare la politica americana?
Questa è una delle grandi incognite della nostra epoca. Cosa sarebbe successo nel secolo scorso se Russia e Germania, anziché combattersi, avessero unito le forze contro la Gran Bretagna e gli Stati Uniti d’America? Molto probabilmente vivremmo in un mondo diverso. E così cambierà il futuro, a seconda che le tre potenze asiatiche si uniscano in una “sfera di co-prosperità”, oppure si battano per la supremazia regionale. Una delle grandi fortune degli USA è di non avere alcuna grande potenza vicina: la loro espansione non è stata rallentata precocemente dall’attrito di rivali geograficamente prossimi. La Germania, incassata tra la Francia, la Gran Bretagna e la Russia, è stata sconfitta nel Novecento pur essendo la nazione più colta, organizzata, coesa e potente che vi fosse nel mondo. La Cina vive una situazione simile, perché circondata da Russia, India e Giappone. Il Reich tedesco fu sconfitto principalmente per la propria imperizia diplomatica, ossia l’abilità con cui si fece nemici tutti i vicini contemporaneamente. La Repubblica Popolare cinese dovrà sforzarsi di non ripetere lo stesso errore, o potrebbe ripercorrerne le sorti.
E’ importante spendere due parole anche sulla Russia. Per prima cosa la formazione geografica della Russia è riconducibile alla teoria del Heartland: gli Usa come hanno saputo colpire anche questa zona? La Russia però sembra vivere una seconda giovinezza grazie alla politica estera ed interna di Putin. Cosa ha fatto il primo ministro russo? E quali saranno le prossime mosse della “dottrina Putin”?
Come spiego dettagliatamente nel mio libro, dalla caduta dell’URSS ad oggi gli USA seguono quattro direttrici offensive verso la “Terra-cuore” di mackinderiana memoria, e dunque contro la Federazione Russa: 1) orchestrano “rivoluzioni colorate” per impedire a Mosca d’esercitare un’egemonia regionale; 2) allargano la NATO per penetrare militarmente nell’area ex sovietica; 3) cercano di sottrarre alla Russia il controllo dei giacimenti di petrolio e gas dell’Asia Centrale, per minare il rapporto d’interdipendenza Europa-Russia-Asia Centrale; 4) sviluppano uno scudo antimissili balistici nella speranza di raggiungere la supremazia nucleare. Rimando alle pagine de La sfida totale per i particolari relativi ad ognuna di queste “direttrici d’attacco”.
I Russi ovviamente non sono rimasti a guardare. Putin ha ristabilito l’autorità statale e rilanciato l’economia russa. Ciò gli ha permesso di essere più assertivo in politica estera, ed ha risposto punto per punto agli USA: anche questo è spiegato dettagliatamente nel mio libro.
Le prossime mosse di Putin sono più difficili da prevedere, innanzi tutto perché passano per il rapporto con Medvedev. Da anni esistono due scuole di pensiero: una che vede in Medvedev il prestanome di Putin, l’altra che individua una contesa per il potere. Inizialmente la prima corrente era nettamente maggioritaria, ma oggi la seconda acquista nuovi sostenitori. Ad esempio, Thierry Meyssan legge gli eventi russi secondo l’ottica d’uno scontro al vertice. Assumendo tale prospettiva “conflittuale”, potremmo concludere che Medvedev spinga per una svolta “atlantista” in politica estera, mentre Putin rappresenterebbe lo zoccolo duro “nazionalista”. A quel punto bisognerà aspettare di conoscere chi avrà la meglio per prevedere come si muoverà la Russia in futuro.
Personalmente, ritengo che al di là di comprensibili divergenze il tandem alla guida della Russia continui a funzionare. E che Putin rimanga il vero padrone a Mosca. L’accondiscendenza di Medvedev verso gli USA potrebbe essere un modo per abbassare i toni dello scontro, in un momento in cui la Russia non si sente ancora pronta a sfidare apertamente gli USA.
Che significato ha avuto il crollo del muro di Berlino per lei? E’ venuto a crollare un sistema geopolitico o ha simboleggiato anche la fine di una rivoluzione politica, culturale e filosofica? Non crede che sia ora di far capire agli europei che l’abbattimento di quel muro non è stato il semplice crollo del comunismo, ma molto di più?
Secondo François Furet la caduta del Muro ha rappresentato “la fine di un’illusione” – ossia di quel che restava del comunismo, per l’appunto una semplice “illusione”. Furet scriveva con l’asprezza d’un vecchio ex comunista deluso, ma qualche ragione l’aveva. L’URSS aveva perduto la sua spinta rivoluzionaria già da decenni – quanto meno da quando era fallito il progetto di Chruščëv di lanciare una versione “destalinizzata” del bolscevismo. Con la morte di Stalin l’URSS ha cominciato a decadere come potenza, e col XX Congresso del PCUS anche come faro ideologico.
Non è qui la sede per discutere di meriti e demeriti del marxismo-leninismo come ideologia. Si possono avere tutte le buoni ragioni del mondo, ma la storia è il grande giudice che emana verdetti inappellabili. Come diceva Marx stesso, ciò che si ripete nella storia passa da tragedia a farsa. Ecco perché i nuovi “rivoluzionari” cercano di trovare soluzioni originali, come il “socialismo del XXI secolo” di Chávez. Attraverso questi nuovi esperimenti, qualcosa di quella “illusione” continua a sopravvivere. Sono quegli elementi ideologici, quei valori e quelle aspettative che sono indipendenti dalla manifestazione storica del marxismo-leninismo, e spesso sono indipendenti anche dall’idea stessa del marxismo-leninismo.
Ma allora che cosa crollò in quegli anni? A crollare fu una costruzione geopolitica, l’area di egemonia moscovita. Putin ha definito la disgregazione dell’URSS come “la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo”. È un fatto che il crollo sovietico lasciò la superpotenza statunitense senza il suo kathecon, libera di coltivare i propri sogni di dominio universale. Purtroppo per Washington, il momento unipolare è durato molto meno di quanto s’aspettassero i profeti della “fine della storia” come Fukuyama.
Sul finire del suo libro afferma che la sfida per un mondo multipolare è impresa difficile. Che cosa può fare la politica europea che ormai da decenni vive una crisi d’identità e di valori, preferendo un ruolo succube della politica occidentale e americana? Se la politica dei parlamenti è incapace davanti alle sfide della nostra modernità, cosa resta da fare ai popoli ormai nauseati dal sistema monopolare?
La vostra domanda presuppone che ci sia una “politica europea”, ossia una volontà comune tra i paesi dell’Unione. Presuppone anche che l’Unione Europea abbia un futuro assicurato.
Storicamente, le nazioni si sono unite tra loro o per forza o per paura. La parabola europea ricorda quella delle colonie nordamericane: non a caso molti europeisti hanno fissato quale proprio obiettivo la creazione di “Stati Uniti d’Europa”. Le colonie si unirono per combattere un nemico comune, che era il Parlamento di Londra. I paesi dell’Europa Occidentale si unirono per difendersi da una comune minaccia, quella rappresentata dall’Unione Sovietica. Le colonie nordamericane, vinta la guerra per l’indipendenza, decisero di unirsi – e solo dopo un intenso dibattito – perché avevano paura che, divise, non sarebbero riuscite a ritagliarsi un posto degno nella politica e nella divisione del lavoro internazionale. Oggi, i paesi europei insistono nell’integrazione europea perché percepiscono la difficoltà di affrontare separati la sfida dei “paesi in via di sviluppo”. Ma le colonie nordamericane avevano una stessa lingua, una stessa etnia, una storia comune. Eppure, meno d’un secolo dopo, la metà di loro cercò di secedere e l’unità si salvò solo grazie ad una sanguinosa guerra fratricida. I paesi europei hanno lingue ed etnie differenti, ed una storia di guerre, inimicizie e tradimenti reciproci.
Rimane la via della forza. Personalmente, credo che l’Unione Europea potrà diventare un reale soggetto politico solo qualora al suo interno prevalga un singolo paese. Basti osservare i fatti di questi giorni, con l’asse franco-tedesco che cerca di dettare le proprie regole, ed imporre un sistema di punizioni per gli altri Stati dell’Unione. La Germania è il principale candidato all’egemonia continentale. Il mercato comune ha già fatto di Berlino l’arbitro della politica monetaria europea ed il centro produttivo che inonda con le proprie merci tutti gli Stati consociati. Si parla sempre della Cina, ma la Germania esporta più o meno quanto la Repubblica Popolare – con meno d’un sedicesimo della sua popolazione – e più degli USA; esporta più del doppio della Francia e quasi il triplo dell’Olanda, che pure sono il secondo ed il terzo maggiore esportatore europeo. L’integrazione economica ha rafforzato le manifatture tedesche, spesso a discapito di quelle degli altri paesi europei.
Sarebbe così strano che proprio la Germania, entrata quasi come un pariah nella comunità europea, da grande nemico sconfitto, ne diventi la padrona? La storia c’insegna di no. Nella Grecia antica la Macedonia era a malapena considerata parte della famiglia ellenica, eppure fu proprio quel lontano regno di zotici montanari, ai margini del “mondo civilizzato”, che alfine conquistò l’egemonia tra gli Elleni.
I Tedeschi potrebbero ottenere col commercio, la moneta e la pacifica integrazione ciò che non ottennero con milioni di morti in due guerre mondiali.
I giornali e i Tg sono tutti concentrati sulla “situazione islamica”, tanto che sono già molte le voci islamofobe che gridano alla nuova Lepanto. Qual’è il ruolo che ha l’Oriente islamico nello scacchiere mondiale? Quanto la religione islamica influisce sulla politica internazionale dei singoli stati? In quest’ottica come si sente di descrivere il comportamento tanto screditato dell’Iran?
“L’Oriente islamico” non è ovviamente un soggetto unitario, per quanto possa talore apparire tale all’esterno. Esso è diviso in una gran quantità di paesi, alcuni dei quali con minoranze abbastanza considerevoli, considerando che si tratta di comunità autoctone e saldamente radicate: il riferimento va ovviamente ai cristiani d’Egitto, Palestina, Siria, Libano, Iràq ed altri paesi a maggioranza musulmana. L’Islàm non è una religione monolitica: al di là della ben nota distinzione tra sunniti e sciiti, va ricordato che non esiste un “Papa musulmano”, e dunque un riferimento istituzionale condiviso da tutti i credenti. Inoltre, alle differenze religiose vanno sommate quelle politiche – sebbene i due piani tendano a sovrapporsi nei paesi islamici. Ci sono regimi squisitamente “laici”, altri confessionali, altri ancora misti. Egualmente variabile è il sentire comune delle varie popolazioni musulmane. Ci sono popoli con un più forte senso nazionale, poiché questo è pre-esistente all’Islàm (Egitto o Iràn), ed altri che vivono in Stati costruiti a tavolino dai colonialisti (pensiamo al Kuwait). C’è infine la differenza etnico-razziale, con paesi arabi, indoeuropei, indiani o mongoli, uniti solo dalla comune religione musulmana. Per quanto tutti i popoli musulmani condividano alcuni interessi – come la questione ebraico-palestinese – le differenze paiono prevalere sulle similitudini.
L’area islamica è oggi principalmente un teatro di scontro tra le grandi potenze, che non potendo o non volendo scontrarsi direttamente tra di loro, si combattono indirettamente in quest’area particolarmente frammentata – e dunque debole – e prossima alle sfere d’influenza di ciascuna di loro – USA, Europa, Russia, Cina, India, Giappone. Vari paesi musulmani cercano di volgere la situazione a proprio vantaggio, sfruttando le rivalità tra potenze esterne per attirare su di sé attenzioni positive, ma pochi cercano d’avere un ruolo realmente attivo, di potenza regionale: si tratta di Turchia, Iràn e Arabia Saudita, ed entro certi limiti anche Egitto e Pakistan.
Il discorso dell’islamofobia è più complesso. È stato affrontato, tra gli altri, da Enrico Galoppini in un’opera abbastanza recente. Tra i vari fattori che stanno dietro all’islamofobia, ritengo che uno dei principali sia l’azione di Israele e dei centri di propaganda sionista disseminati per il mondo: aizzando gli altri popoli contro l’Islàm, cercano di farli identificare con la loro causa.
Per creare un mondo multipolare occorre intervenire anche in Africa, terra in cui l’operato degli stessi Stati Nazionali è gestito dallo strapotere economico delle grandi multinazionali. Come è possibile risvegliare un sentimento africano calpestato dalla colonizzazione economica occidentale e dai contrasti etnico-religiosi? E quanto è importante permettere uno sviluppo africano per creare un asse Sud – Sud?
Se è destino, sarà la storia a risvegliare l’Africa. È successo spesso che una civiltà si risvegliasse su impulso ricevuto dall’esterno: l’esempio più recente è quello di molti paesi decolonizzati, che hanno adottato lo spirito nazionalista, lo Stato moderno e le tecnologie degli ex padroni stranieri. Però, prima di fare ciò, hanno dovuto subire secoli di dominazione, saccheggio e talvolta persino schiavitù. L’Africa stessa ha subito il colonialismo ed ha cercato di rialzarsi sulla base del nazionalismo d’ascendenza giacobina, ma il processo storico non è andato a buon fine – un po’ come successo ai paesi arabi, molti dei quali infatti cercano oggi di aprirsi una nuova strada nel mondo tramite ideologie d’ispirazione religiosa. Un simile passaggio da un’opzione occidentalista ad una indigenista difficilmente, in Africa, potrà basarsi sull’elemento confessionale. In Africa convivono molti culti, l’Islàm è troppo poco diffuso, il Cristianesimo è la religione dei colonialisti e l’Animismo consiste in realtà in una miriade di religioni differenti. Un tentativo indigenista, ma non basato sulla religione, potrebbe forse essere quello di Mugabe in Zimbabwe, dove la maggioranza nera cerca di conquistare anche la sovranità economica espropriando i latifondisti bianchi. Si tratta però di un esperimento isolato, e Mugabe è molto anziano.
L’Unione Europea ha dato davvero vita ad un’Europa unita? Se ciò non è accaduto cosa rappresenta il parlamento europeo? E come poter creare un sentimento europeo capace di colpire il qualunquismo moderno e il fasullo nazionalismo contemporaneo che tanto sembra favorire il sistema liberale e liberoscambista?
Ho già spiegato prima il mio punto di vista sull’Unione Europea: essa è nata dall’idealismo di pochi e dall’opportunismo di molti. Questi ultimi hanno colto la necessità che i “piccoli” paesi europei operassero tutti assieme per riacquistare peso nell’agone internazionale. Oggi è possibile che per alcuni paesi l’appartenenza all’UE si traduca in un freno, perché uno Stato che non può condurre una propria politica monetaria (controllata da Berlino per tutta l’Europa) ha sovranità limitata. Se dovesse venire meno “l’opportunità”, vedremo quant’è forte, salda e radicata “l’idea”.
Quanto sono cambiate le scelte politiche americane dopo l’elezione di Obama? Si tratta di una svolta reale o solamente di un diverso modo d’agire per raggiungere i medesimi risultati?
In politica estera, la differenza con Bush, come mi è più volte capitato di sostenere, consiste in ciò: che Bush abbaiava prima di mordere, mentre Obama morde e basta. Obama sanziona l’Iràn senza minacciare di bombardarlo un giorno sì e l’altro pure. Obama organizza colpi di stato in Ecuador e Honduras mentre stringe la mano sorridente anche ai più radicali statisti latino-americani. Per il resto, non ravviso molte differenze. Forse, sul piano interno Obama vorrebbe spostare la politica di disavanzo dalle spese militari a quelle sociali, ma i nudi dati dimostrano che durante la sua amministrazione sono state le prime che hanno continuato a crescere.
Eurasia: utopia o realtà?
Una politica di distensione e cooperazione a livello pan-eurasiatico è necessaria per sfuggire all’egemonia statunitense, ma l’idea di una completa unificazione politica a livello eurasiatico è utopia, né più né meno del “super-Stato mondiale” o altri progetti similari. La tendenza è semmai quella all’integrazione regionale nel quadro d’un sistema internazionale pienamente multipolare.