Il giorno 1 maggio 2003, un George W. Bush visibilmente commosso annunciò dal ponte della portaerei USS Abraham Lincoln, rientrata poco prima da una missione sul Golfo, la fine delle “principali operazioni di combattimento”, e dichiarò che gli Stati Uniti e i loro alleati avevano prevalso nella battaglia in Iraq.
La guerra, iniziata nel marzo dello stesso anno, aveva visto la “Coalizione dei Volonterosi”, nome dato da Bush stesso al gruppo di paesi che avevano inviato le proprie truppe a supporto di quelle statunitensi, abbattere il regime di Saddam Hussein in soli 21 giorni di combattimenti, e occupare l’Iraq in poco più di 40.
Alle spalle di Bush, era visibile un enorme striscione appeso alla cabina di controllo della portaerei, su cui figurava, su sfondo a stelle e strisce, la scritta “Mission Accomplished”, Missione Compiuta.
Più di sette anni dopo, quasi alla fine del 2010, l’esercito statunitense e alcuni suoi alleati sono ancora in Iraq, impantanati in una sanguinosa guerra civile il cui numero di vittime, pur essendo argomento di controversia, è stimato in parecchie decine di migliaia.
Nel frattempo, diversi rappresentanti della Casa Bianca si sono peritati di chiarire come lo striscione Mission accomplished fosse riferito non tanto alle operazioni dei “Volonterosi” in Iraq, quanto piuttosto alla singola missione appena terminata dalle truppe della USS Abraham Lincoln.
La guerra dei numeri
La pubblicazione su Wikileaks, il sito Internet dove anonimi giornalisti, programmatori, ingegneri e matematici indipendenti pubblicano notizie e informazioni “riservate”, dei cosiddetti Iraq War Logs, lo scorso 22 ottobre, ha scatenato una serie di reazioni contrastanti a livello internazionale.
I diari sulla guerra irachena, infatti, consistono in circa 391.000 documenti prodotti dalle Forze Statunitensi in Iraq e classificati dalle stesse con l’acronimo di SIGACT, Significant Action in the war (“Azioni significative nella guerra”): si tratta dunque di rapporti ufficiali di fatti visti o uditi tra il 2004 e il 2009 dalle truppe impegnate direttamente in territorio iracheno.
L’analisi di tali documenti rivela come nel periodo tra il 2004 e il 2009 siano state registrate ufficialmente 109.032 vittime in Iraq, tra i quali sarebbero compresi 66.081 civili, 23.984 “insorgenti”, 15.196 membri delle forze governative irachene e 3.771 membri delle forze della coalizione. Lo stesso Wikileaks spiega come nello stesso periodo in Afghanistan, a parità di popolazione, il bilancio delle vittime ammonti a 20.000, con il risultato che la guerra irachena risulta 5 volte più letale del conflitto in suolo afghano.
Tuttavia, il dato che più colpisce l’attenzione è la predominanza delle vittime civili sulle forze combattenti di ogni tipo (militari iracheni e internazionali, insorgenti). A tale proposito, i diari sulla guerra in Iraq danno notizia di circa 15.000 vittime civili che precedentemente non erano mai state registrate.
Sulla questione dei numeri delle vittime civili in Iraq una voce importante è il progetto Iraq Body Count (IBC), fondato nel gennaio del 2003 da volontari statunitensi e britannici che si occupano di fornire un costante aggiornamento dei decessi dei soli civili in Iraq, sulla base del confronto delle notizie riportate dai media sulla morte di civili o sul ritrovamento di cadaveri, e sui dati forniti da ospedali e obitori locali, Organizzazioni non Governative e altre figure ufficiali.
I dati raccolti finora da IBC sono stati integrati da quelli forniti dai War Logs: ne risulta la scoperta dell’esistenza di 15.000 vittime civili che precedentemente non erano state registrate. Tra questi, IBC spiega come circa 12.000 nuove vittime sono catalogate dai War Logs sotto la voce “civili”, e si riferiscono a cittadini iracheni e ad altri civili, inclusi i contractors stranieri; altre 15.000 nuove vittime sono fornite dalla categoria “Nazione Ospitante”, riferita nei War Logs alle forze governative irachene di qualsiasi tipo, dalla polizia locale, alla Guardia Nazionale all’esercito: IBC assume da questa categoria circa 2.700 vittime e le inserisce tra quelle civili, poiché o facenti parte della polizia locale o uccise in seguito alla cattura e non durante operazioni. Ne risulta, appunto, un totale di circa 15.000 nuove vittime da inserire nel conteggio di IBC dei civili. Se ne desume pertanto che, basandosi IBC sui dati riportati dai media, di queste 15.000 vittime i media non abbiamo mai parlato. Una più approfondita analisi spiega come tendenzialmente queste 15.000 morti siano avvenute in seguito a piccoli attacchi, sparatorie o esecuzioni che hanno coinvolto da una a tre persone, piuttosto che in seguito a grandi esplosioni o bombardamenti. Questi fatti risultano da un lato di difficile registrazione da parte dei media e dall’altro “meno interessanti” per il pubblico rispetto ai grandi attacchi di massa. D’altra parte, tali omicidi di piccoli numeri si dimostrano innanzitutto frequenti, alla luce dell’elevata cifra di morti non registrati, e in secondo luogo danno un’idea dello stillicidio quotidiano a cui la popolazione irachena sia stata sottoposta negli ultimi sette anni.
Il bilancio di IBC sui morti in Iraq dal 2003 ad oggi, arricchito dalle nuove 15.000 vittime civili rivelate dai War Logs, arriva ad ipotizzare la cifra di circa 150.000 morti violente, di cui più di 122.000 (circa l’80%) sarebbero civili.
Altri dati sul numero delle vittime discordano pesantemente da quelli offerti da Wikileaks e IBC.
Secondo il Comando Centrale delle Forze Armate americane nel Golfo, tra il 2004 e il 2008 i morti civili iracheni ammonterebbero a 63.185, mentre gli agenti e gli ufficiali delle forze di sicurezza deceduti sarebbero 13.574. Nello stesso periodo sarebbero morti 3.952 soldati statunitensi e di altri paesi. Da notare che i dati non comprendono le vittime civili del 2003, l’anno dell’invasione dell’Iraq, che secondo lo IBC si aggirano sui 12.000 morti.
Nel 2008, il Ministero Iracheno dei Diritti dell’Uomo aveva emesso un bilancio di 85.694 vittime, tra civili e militari iracheni, sempre riguardo al periodo tra il 2004 e ottobre 2008.
Ancora nel 2008 erano state calcolate circa 150.000 vittime, tra marzo 2003 e luglio 2006, da parte dell’organizzazione Iraq Family Health Survey Study Group, nata dalla collaborazione dell’Organizzazione Mondiale della Salute con altre cinque tra organizzazioni e ministeri iracheni locali. Tuttavia, l’analisi è stata giudicata da molti alquanto debole, in quanto si basa unicamente su interviste effettuate su un campione di circa 10.000 famiglie irachene riguardo alle perdite riportate nel periodo analizzato.
Nell’ottobre 2006, la rivista britannica di medicina The Lancet aveva ipotizzato la morte di 655.000 iracheni. Tale cifra era stata ottenuta dal confronto del tasso di mortalità nelle famiglie interrogate nel 2006 con il tasso ufficiale iracheno del 2003. Anche una tale metodologia ha suscitato diversi dubbi, soprattutto a causa della mancanza di pertinenza del campione intervistato: la maggior parte delle famiglie intervistate risiedeva infatti nei pressi delle vie principali del paese, zone molto colpite da attacchi e da attentati.
Uno studio condotto nel 2006 dalla scuola medica Bloomberg dell’Università statunitense Johns Hopkins, stimava, sulla base di una media tra un minimo di 426.369 decessi e un massimo di 793.663, che dal marzo 2003 a luglio 2006 fossero morti 601.027 civili iracheni.
La cifra più elevata, infine, era stata proposta nel 2007 dall’istituto britannico di sondaggi Opinion Research Business, che era giunto a parlare di più di un milione di morti tra marzo 2003 e agosto 2007.
Le profonde differenze sulle stime dei decessi finora proposte non permettono di ottenere un bilancio chiaro e attendibile sulle vittime della guerra in Iraq. Troppo spesso differiscono, più che le cifre finali, le modalità di indagine o i parametri utilizzati nella catalogazione delle vittime, sia a livello temporale sia di categorie utilizzate.
Sebbene le due fonti finora più attendibili risultino essere i bilanci di IBC e Wikileaks, entrambi indipendenti e basati su dati reali riportati e registrati da media e da istituzioni ufficiali, il fiorire di indagini e ricerche sul numero delle vittime in Iraq dimostra come tale cifra susciti un accorato dibattito. La causa di ciò è sicuramente individuabile nei valori alti di queste cifre, che nella più ottimistica delle ipotesi parlano di 60-70.000 vittime civili, di gran lunga al di sopra delle previsioni iniziali da parte di chi pianificò l’invasione dell’Iraq.
Tuttavia, l’esatta identificazione del numero delle vittime civili o militari, irachene o internazionali, non sembra essere l’unico spunto di ragionamento per stilare un bilancio della guerra in Iraq. Altri fattori, a questo proposito, scaturiscono dall’analisi del numero delle vittime e contribuiscono in pari misura alla delineazione di un quadro d’insieme che permetta di valutare i risultati ottenuti dalla presenza delle forze della coalizione in Iraq.
Oltre la guerra dei numeri.
I War Logs di Wikileaks, così come tutte le altre analisi e le raccolte di dati sulla guerra, costituiscono uno strumento utile non soltanto per conteggiare il numero delle vittime in Iraq, ma anche per analizzare altri aspetti riguardanti le Significant Actions in the war.
Innanzitutto le modalità di uccisione delle vittime.
Come è già stato sottolineato, un buon numero di civili tra i 122.000 denunciati da IBC sarebbe stato ucciso al di fuori di grandi operazioni di bombardamento da parte dell’esercito della coalizione o da pesanti attacchi degli insorgenti: molti sarebbero deceduti in seguito a piccole tragedie multiple, come assassini mirati, esecuzioni o uccisioni ai checkpoints.
Inoltre, dall’analisi dei rapporti ufficiali dei War Logs risultano centinaia di casi di abusi, torture, violenze e omicidi da parte delle forze di polizia e dell’esercito iracheni.
Questo fatto è importante, poiché ha delle conseguenze dirette sulla condotta statunitense: infatti, il giorno successivo alla pubblicazione dei War Logs, Barak Obama è stato richiamato dall’attuale Commissario Speciale delle Nazioni Unite sulla Tortura, Manfred Nowak, ad iniziare immediatamente delle indagini sui casi di abuso dei diritti umani da parte delle forze irachene, sulla base degli obblighi internazionali assunti dagli Stati Uniti stessi al momento della firma della Convenzione delle Nazioni Unite contro la Tortura. Tale Convenzione impone agli Stati firmatari non soltanto l’obbligo di astensione da tortura e trattamenti disumani nei confronti di qualsiasi prigioniero o persona sotto custodia, ma anche l’obbligo di prevenzione di atti di tortura nel territorio dello Stato e in “ogni territorio sotto la giurisdizione dello Stato”, ossia “tutte le aree in cui lo Stato firmatario esercita una qualche forma di controllo, direttamente o indirettamente, in toto o in parte, de jure o de facto”1.
In secondo luogo, risulta opportuno dedicare grande attenzione non soltanto al numero e alla modalità dei decessi in Iraq, ma anche alla frequenza con cui questi sarebbero avvenuti.
I dati di IBC, aggiornati al 10 ottobre 2010, mostrano come a partire dal 10 marzo 2003 gli eventi di morte violenta di civili abbiano avuto cadenza quotidiana. I decessi di civili a causa della guerra hanno avuto nei diversi anni medie impressionanti. Le vittime di attacchi suicidi oscillerebbero tra una media di 1,4 morti giornalieri nel 2003 ai 21 del 2007, per poi scendere gradualmente negli anni fino ai 7,4 del 2010. Inoltre, le vittime giornaliere medie a causa di sparatorie ed esecuzioni sarebbero aumentate da 15 nel 2003 a 56 nel 2007, per poi giungere nel 2010 a 3,9.
Sebbene nel corso dei sette anni di guerra sia evidente una costante crescita del numero delle vittime a partire dal 2003 fino al un picco massimo nel biennio 2006 – 2007, altrettanto evidente risulta il costante abbassamento, negli ultimi tre anni, del numero delle vittime civili in Iraq.
Tuttavia, malgrado la presente tendenza al ribasso del numero di vittime, non
Sembra essere calata la frequenza degli omicidi, che colpiscono ancora quotidianamente il territorio iracheno. Ne risulta un quadro fosco di martellante presenza di atti violenti che dall’inizio di marzo 2003 stanno martoriando il territorio iracheno, la sua popolazione e chiunque vi si trovi ad operare a qualsiasi titolo.
Alcune conclusioni
I dati fin qui brevemente esposti, assieme agli altri risultanti dalle analisi dei più attendibili progetti di monitoraggio delle operazioni in Iraq, contribuiscono a dimostrare come lo striscione Mission Accomplished dell’1 maggio 2003 si sia rivelato oltremodo ottimistico e come la cosiddetta “guerra simmetrica” tradizionale, che vede contrapposti due eserciti in lotta fra loro, non risulti essere la soluzione ideale nel contesto di guerra “asimmetrica” stabilitosi in Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein.
Dal 2003 al 2010 molte cose sono cambiate, in Iraq e nel mondo. Da un lato, gli eventi della guerra hanno portato in Iraq ad un cambio di governo, alla presenza di una maggioranza al potere composta da rappresentanti di gruppi che negli ultimi 25 anni erano rimasti ai margini, allo scoppio di una vera e propria guerra civile all’interno del paese, all’ingresso in Iraq di gruppi legati ad al-Qaeda ed al terrorismo internazionale. D’altra parte, anche gli Stati Uniti del 2010 sono profondamente diversi dagli Stati Uniti del 2003, allora scossi da un attacco terroristico epocale, quello dell’11 settembre 2001, che per la prima volta aveva messo in dubbio i sistemi di sicurezza del paese più potente del mondo, oggi turbati e indeboliti da una crisi economica e finanziaria che per la prima volta ha messo in dubbio anche la loro predominanza in campo economico. In secondo luogo, il cambio di presidenza alla guida della Casa Bianca, e le prospettive nuove con cui l’attuale presidente Barak Obama ha inteso affrontare la questione irachena. L’amministrazione Obama si è trovata fin dall’inizio della propria attività a dover gestire una situazione, quella irachena, creata e perseguita da altri e giunta ad un livello di parossismo tale da rendere estremamente difficile la previsione delle conseguenze di qualsiasi azione si intenda intraprendere. Tuttavia, l’amministrazione Obama ha ereditato la responsabilità dell’esito della guerra in Iraq e da un tale esito, probabilmente, dipenderà gran parte della credibilità e della saldezza dell’amministrazione stessa.
Gli importanti dati resi pubblici da Wikileaks, così come le più autorevoli analisi e i tentativi di bilancio dei sette anni di guerra non devono spaventare l’amministrazione Obama, né devono essere considerati come un elemento da nascondere o insabbiare. Piuttosto, i dati contenuti in tali analisi dovrebbero essere considerati dall’attuale Governo statunitense come un punto di partenza per analizzare l’andamento della missione irachena fin dal suo inizio, evidenziandone gli errori e le mancanze, e su cui porre le basi di un nuovo orientamento delle attività statunitensi e del governo iracheno nei prossimi anni, in modo tale da evitare i medesimi errori nella nuova politica del paese dei due fiumi.
* Giovanni Andriolo è dottore in Relazioni internazionali e tutela dei diritti umani (Università degli studi di Torino)
1 Art. 16, United Nations Convention Against Torture and Other Cruel, Inhuman or Degrading Treatment or Punishment, General Comment No.2.